Nulla che mi basti, nulla che mi guasti. Il blog di Manuela Ardingo.

sentire una specie di orchestra

quando il rumore è dentro è inutile tapparsi le orecchie. se l'arma che temi è il tuo cervello sei spacciato: neanche il metal detector più sofisticato la individuerà. se la bomba più potente che possiedi è nascosta da qualche parte dentro di te: scoppierai perché nessuno sarà in grado di disinnescarla. nessuno potrà salvarti. se la voce che ti dà più fastidio è quella della tua coscienza, allora stare un po' da solo diventerà il più terribile dei tuoi incubi.
e quando ti capita sai che se stai bene è solo una tregua e poi le voci torneranno. e con loro le parole. e, a volte, la musica. quella che chiamano earworm.

grammar nazi

ci passo tutti i giorni e posso confermare di aver molto sofferto, soprattutto per quella doppia bi. così ho notato con sollievo che qualcuno, nottetempo, aveva pensato bene di smettere di soffrire e finalmente correggere.
ma vi assicuro che non è opera mia, ho le prove: io la enne maiuscola non la faccio così e manca ancora una erre.

¡el mundo cambia con tu ejemplo, no con tu opinion!

solutio generalis et accurata problematum quamplurimorum de motu corporum elasticorum incomprimibilium

 

d mi ha rivelato solo da due giorni che alcuni articoli del grandissimo matematico clifford truesdell sono scritti in latino. so che anche newton lo faceva ma mi ha molto colpito perché truesdell oltre che un genio era anche un americano contemporaneo nato a los angeles. i suoi articoli sono rivoluzionari e (anche in inglese) incomprensibili ai più, lo capisco, ma proprio per questo l'utilizzo del latino mi è sembrata un'idea geniale e, non so, piena di speranza. sarà che non penso al latino come a una lingua morta ma come un qualcosa di universale e presente anche dove non lo diresti mai, un po' come la matematica.
ho trovato elegantissima, ad esempio, la dedica dell'articolo di rutherford aris qui sopra: viro celeberrimo cliffordo ambrosio truesdello...
vi allego qui un articolo intero, per mamo e per chi di voi vorrà provare a cimentarsi.

kids and teachers are more than a score...

oggi ho letto e risolto questo rompicapo in dieci minuti. non vi nascondo lo stupore di scoprire che il posto giusto per me potrebbe essere singapore... almeno secondo il test!

(whose school? OUR SCHOOL! who decides? WE DECIDE!)

e tu correvi su chilometri di scontrini ma non mi raggiungevi

io non riesco a guardare solo da un lato. è un limite, ora lo so. e dire che porto gli occhiali fin da quando ero bambina. anche se ormai solo perché fanno parte di me. anzi: solo per certificare la necessità di correggere un modo di vedere strabico e reattivo che, se non educato, saprebbe confondere i più. quando ho smesso di avere bisogno delle sue cure ho scritto all’oculista da cui andavo da più di vent'anni: se è vero che gli occhi sono lo specchio dell’anima, grazie a lei, nessuno mai vedrà in me un’anima storta.

scrissi così ma non so se riuscirei a scriverlo ancora. solo dopo, infatti, ho capito che i miei occhi sono poco interessati a me, al mio corpo, alla mia anima. i miei occhi sono presuntuosi e pretendono di essere lo specchio del mondo, di cogliere il dettaglio che svela il trucco, di interpretare nella giusta sequenza i tanti piccoli segnali luminosi degli altri.

casi

si dà il caso ma non per caso che un giorno dell'estate scorsa mi aggirassi con una tazzina in mano davanti alla grande libreria di una bellissima casa di washington d.c. (dove d.c. sta per daniil charms, ovviamente.) fuori gli scoiattoli correvano tra i rami, avevamo già bevuto ventuno caffé e il sole era altissimo, quasi perso in uno di quei cieli giganti che solo l'america riesce a mettere su. scorrevo i titoli e per ogni libro pensavo un breve pensiero: bello, sì, forse l'ho letto al liceo, sopravvalutato, indispensabile nella biblioteca di ogni italiano mediocolto, a chi lo avevo prestato? e così via. finché il caso mi mise davanti a un libro di daniil charms che avevo conosciuto tramite paolo nori e scoperto ben presto introvabile. un autore poco diffuso che nessuna libreria sembrava conoscere, ma che alla fine, quasi per caso, ero riuscita ad avere grazie alla hoepli di milano. mentre cercavo di tirarlo fuori quasi non ci credevo. un caso pazzesco, daniil charms a washington! un caso pazzesco trovarlo proprio quel giorno: mentre erano anni che non ci pensavo, stavo leggendo altro e non ricordavo neanche più dove fosse la mia copia.

l'essenziale è che scriva e che sia, effettivamente, presente

quello che segue è il brano tratto da sottomissione di michel houellebecq di cui scrivevo ieri in un commento ad arthur. spiega bene, almeno secondo me, il senso di legame che si instaura sempre tra autore (se effettivamente presente nel libro) e lettore. i corpi (né muti ritagli di corpi) non c'entrano, si tratta di un legame privo persino di una stretta di mano. c'entra la presenza, la presenza effettiva tra le righe di quello che scrivi. solo quello.

how eclipses are made

I really can’t understand how someone in their right mind would really believe that this picture is showing Sylvia Plath right after her suicide (yeah, I’m sure Sylvia thought about putting on some fancy white gloves and high-heeled sandals in the middle of the night before turning on the gas in her own kitchen)!

Damn people, please use your heads!!

[anna su loving sylvia]

open you hand. empty? empty. here is a hand...

non mi piacciono le foto sui profili, l'idea di sé che si nasconde dietro a un'immagine costruita ripetizione dopo ripetizione. un po' perché le immagini si specializzano via via in una riduzione di noi che vive di vita propria mentre diventiamo altro e questo, per assenza di esibizionismo e amore di verità, non fa per me. e un po' perché, secondo i miei schemi, solo a pochissimi, tra quelli che hanno il mio numero, spetta il diritto di avere foto mie sul loro telefono. il fabbro che mi ha cambiato la serratura, il vicino di casa che a stento mi saluta, il corriere che due giorni fa mi ha chiamato per avvisarmi di un pacco: perché mai dovrebbero vedere una foto di me in costume abbracciata ai miei figli? allo stesso modo, ovviamente, vorrei poter scegliere e non essere costretta a vedere il mio dottore mentre dorme nel suo letto con il pigiamino blu o la maestra di mo figlio in reggiseno sul divano con un gatto in braccio. è questione di pudore, di ambiti separati, di privato che deve restare privato.

quanto ho riso!

[...] Adesso io non saprei cosa dire, in generale, del romanzo di Missiroli, se non che a me, quando Libero, a pag. 33, chiama Parigi «La Ville Lumière», e poi, a pag. 95 chiama New York «La grande mela», mi è venuto in mente quel passo di Aldo Buzzi (dalla Lattuga di Boston) in cui Buzzi dice che lui, a quelli che scrivono «pallone» e poi, due righe sotto, per non ripetere pallone, scrivono «la sfera di cuoio», gli darebbe l’ergastolo. E adesso, io, niente ergastolo, ma questo libro di Missiroli, devo dire, mi ha turbato, e alla fine Montaigne, mi è venuto in mente, quando dice che «Le ragioni dei disordini che turbano il mondo sono perlopiù di natura grammaticale».

Paolo Nori, Un'isola senza mare

las simples cosas

per motivi che sarebbe lungo spiegare ma che, convenzionalmente, chiameremo vita, negli ultimi tempi ho capito che il consiglio di vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo non ha molto senso.

un po' perché abitare stati emotivi tanto difficili conduce a un miscuglio di sentimenti così straziante, così disperato, cui solo alcune luminose eccezioni riescono a sopravvivere. un po' perché, lo confesso, nota la data, sarei capace di rovinarmi la vita intera, facendo decadere in un attimo tutto l'assunto.

arriva sempre qualcuno, a questo punto, che ti spiega: è una specie di proverbio e vuol dire solo vivere alla giornata ed apprezzare le cose semplici.

i veri amici sono i solitari insieme?

«Maybe this is who I really am. Not a loner, exactly. But someone who can be alone.»

gary shteyngart, little failure

c'è un limite a tutto!

alcuni di voi mi hanno scritto chiedendomi quali fossero i libri di shteyngart di cui raccontavo ieri e che io, pensando fossero di dominio pubblico, ho etichettato semplicemente con: ultimo libro di shteyngart, primo, terzo e secondo.
in effetti va bene essere ellittici e postmoderni ma, come direbbe misha vainberg in absurdistan: c'è un limite a tutto.
così, ecco i titoli: il manuale del debuttante russo (il primo), storia d'amore vera e supertriste (il secondo), absurdistan (il terzo), mi chiamavano piccolo fallimento (l'ultimo). tutti editi da guanda, tranne il manuale del debuttante russo pubblicato da mondadori.

boze moj!

ho letto l'ultimo libro di gary shteyngart, poi il primo, poi il terzo e la notte scorsa ero a pagina centosessantotto del secondo. tra il terzo e il secondo ho avuto qualche giorno di libertà vigilata per rivolgermi ad altro (infatti non riuscivo a trovare absurdistan da nessuna parte e come potete vedere scattavo foto inutili) e mi sono trovata improvvisamente smarrita. una sensazione che mi piace e che, ogni volta, mi conferma quanto la molla ossessiva alla base delle migliaia di pagine lette in un soffio a cui ho abituato i miei autori dia sempre i suoi tesissimi frutti.

con shteyngart, però, è stato un po' diverso.

plus-que-parfait

tutto gira e trova posto. sempre. così queste mie parole, stentate, trattenute, quasi un po' in imbarazzo, alla fine, senza troppo pensare, si sono fermate qui. schiacciata dal voler troppo dire ho fatto l'errore più classico: ho iniziato a non dire. quante possibilità mi perdo oscillando tra il parlare troppo e lo stare zitta? riprenderò così, senza dire ma dicendo (poco) di non voler dire troppo. persino gli elogi dell'imperfezione, ormai, richiedono perfezioni che mi vergogno di conoscere perfettamente. l'imperfetto implica durata e sa aspettare. l'imperfetto è spesso e mai potrebbe scivolare giù tra i titoli di coda...

la parola fine, così liscia e elegante, ad esempio, sì.

in cor mi regna l'antico amor

le rimembranze. le ricordanze. le ansie. la critica - latente, fastidiosa - di una diminuzione della poesia laddove si mischi col fango, la miseria, delle umane giornate. come se un poeta, mentre scrive, potesse essere altro da sé. come se, potendo, fosse un atteggiamento sano, da raccomandare. fuori c'è il sole e anche dentro. studio parole più grandi di me e, interpretando, capisco che è cosa pessima interpretare. sogno un mondo di poeti in cui si risponda alla poesia con la poesia. alla vita con la vita. a pensarci la critica, tutta la critica, non è leale. rispondere in prosa a una domanda in rima, ad esempio: non è elegante, non è educato, non convince.

fuori c'è il sole ed è tutto, questo mi rende felice. mi mancate, tutti, sempre. e a tratti penso che non vi ritroverò più. non più come nell'immagine di voi che porto con me. viviamo, cambiamo. ci rendiamo irriconoscibili, in senso stretto. e anche inconoscibili, sempre più. importa meno che l'altro comprenda e approvi il nostro stare al mondo, è già un'impresa convincere se stessi. e poche, pochissime, sono le persone di cui, davvero, ci importi l'opinione. tutto il resto è noia.

che schiava di roma iddìo la creò

potevamo scegliere tra l'orrore e il folklore. abbiamo scelto il folklore ed avremo l'orrore. (o viceversa?)

sogno di una notte eccetera eccetera

leggo e rileggo, compulsivamente, bret easton ellis. d, dopo centinaia di pasticche di librium e migliaia di chilometri tra LAX e palm spings, mi consiglia di ripensare fogazzaro. piccolo mondo antico, per la precisione. io che non ho più neanche un posto dove tornare, parto. leggo. rilancio, continuamente. fino a quando la posta in gioco non ha più niente a che vedere col banco e le carte che ho in mano si sbriciolano come un pacchetto di crackers nel bagaglio a mano. con enorme fatica sfioro amici e chi non è sfiorato si lamenta che vorrebbe essere toccato e chi è sfiorato dice comunque che è poco, e io non ho neanche un posto dove tornare. però ho trentaquattro anni. definiscimi trentaquattro anni, disse jazz, senza togliere i wayfarers, nonostante il buio. (buona vacanze, buone vacanze in glamorama. ciao.)

sfuocato acrostico per viversi l'inchiodo

 

Anime
[perché è di anima che si parla. siamo quelli bravi, quelli profondi. quelli che hanno già scelto. o, in alternativa, quelli che hanno detto di aver scelto. tanto è uguale. l'azione che segue la parola e la sottolinea, ormai, è un lezioso contrappunto da vecchie zitelle. basta dire, basta dire. perché affaticarsi oltre?]

Bianche
[perché siamo come la società borghese da cui prendiamo le distanze. di bianchi cappotti, colli di ermellino e ciprie a coprire. lunghe sigarette chic al posto di cangianti penne d'oca. tra le mani più spesso palline da golf che fiocchi di neve.] 

Come
[affoghiamo nella similitudine. e la similitudine è la forma più a buon mercato di metafora. il come ha allagato tutto. i capelli come ilary blasi, la maglia come quella del protagonista di lost, entrare come una rockstar, diventare magra come un chiodo, essere pallida come un lenzuolo, fingersi stanca come se lavorassi, approcciarsi pessimista come se stessi male. e il punto è che (non) stiamo male.]

siamo nani sulle spalle di giganti eccetera eccetera

 

in questo periodo io e d, ammesso sia possibile, siamo ancora più persi tra libri e speculazioni varie. la nostra casa è invasa dai libri e, appena viola ce lo consente, ci muoviamo felici e silenziosi tra le nostre carte: consultando, leggendoci dei brani, sottolineando, scrivendo. così quando poco fa è tornato e, con la faccia più dispiaciuta del mondo, mi ha detto: hai visto? è morto arnold! mi è venuto un po' da ridere, visto che mi risultava che arnold fosse morto da almeno tre giorni. lui deve aver capito perché quasi subito ha aggiunto: non quello piccolo, quello grande.

ma anche chi dice vestito

l'invio del mio post era ancora nell'aria, quando, guarnita di simpatico vestitino a palloncino, sono uscita con d. l'idea era di prendere la moto ma dopo tre o quattro tentativi ho capito che la femmina anni cinquanta di cui al post prima e l'orlo del palloncino non mi consentivano di accomodarmi decorosamente sulla sella della sua moto. così, per non risalire a cambiarmi, ho proposto il motorino. almeno, pensavo, provo anche come sarebbe guidare per il centro con una specie di reggigonna: ecco, ho ufficialmente capito perché nessuno ci aveva mai pensato.

chi dice gonna dice danno

stupisco che non abbiano ancora inventato un reggigonna da motorino. l'altro giorno ho messo a fuoco con sgomento che la femmina anni cinquanta che è in me vince su tutte le altre. cioè, d'istinto, se devo scegliere tra rimettere a posto la gonna o arrivare sicura fino al prossimo semaforo, scelgo la gonna.

1930-2010

cosa faranno adesso quei suoi larghi occhi chiari? 

young days

la scorsa primavera ho scritto un racconto a cui tengo molto. s'initolava vivere da morire e illustrava le foto di nicola turrini. per motivi diversi non avevo mai avuto modo di pubblicarlo, a parte il catalogo della mostra fotografica per cui era stato scritto. ora ho deciso di farlo e la lunga attesa mi ha regalato un nuovo posto per le mie parole. un posto bellissimo.

vil meccanico!

ho camminato tanto sul confine, ora stretto ora largo, tra due mondi. una terra di nessuno piena di cose e di sospiri che mi ha sempre permesso di sognare tutto. negli anni ho persino pensato al mio piccolo terreno come a un terzo mondo: il vero mondo. quello risultato dalla somma del bello più estatico di entrambi i mondi che, in qualche modo, un'assurda tradizione voleva ancora divisi. negli ultimi tempi, poi, ho raccolto tutte le forze che avevo e con un sorriso enorme ho varcato il confine, di nuovo e ripetutamente. ma ho continuato a fare le cose per bene, le cose giuste. come un pendolo, e quindi con l'isocrona maestà del caso, per dirla con eco, ho vagheggiato su una terra e poi, altrettanto bene, sull'altra. riportando sul mio piccolo mondo stretto le differenze, aggiustando i pregiudizi, modificando le gerarchie. ci sono stati giorni in cui ho creduto di padroneggiarli entrambi, quei mondi. ma credo fosse soltanto, ancora una volta!, l'entusiasmo ingenuo dei clandestini: il terzo mondo non esiste e quei due mondi sono l'uno l'opposto dell'altro, inconciliabili. se non al prezzo della verità. aggiungi che sono stanca di essere sempre diversa, sempre straniera, sempre due, sempre altrove. è arrivato il momento di lasciare per sempre un mondo e di farlo, per una volta!, anche sbattendo la porta, se serve. e poi incamminarmi definitivamente verso l'altro, finalmente senza fantasmi, finalmente leggera. certo la valigia sarà enorme, il cammino più adatto alle scarpe da ginnastica delle ragazzine che ai tacchi di una donna e ci saranno improvvisi rovesci seguiti da ampie schiarite: ma lì c'è qualcosa che mi aspetta da anni e io invece non so aspettare più.

non c'è motivo

 

per motivi che sarebbe lungo spiegare, venerdì scorso, io e d ci trovavamo a galleggiare su un fiume aranciato sotto il centro di roma. il tempo, e quindi lo spazio, erano profondamente influenzati da quel nostro stare immersi tra vapori e minerali. l'eloquio diventava superfluo, il pensiero possibilista. pensavo, egocentrica, che anche il mondo fuori, dopo tutte quelle ore, avrebbe respirato in modo diverso. ma quando siamo tornati in superficie, barcollanti levigati e con evidenti difficoltà di socializzazione, abbiamo trovato il nostro tandem senza un sellino. così mentre camminavo per tornare a casa a piedi, ho cominciato a pensare alle nuove conclusioni da trarre. al nuovo corso da dare ai miei pensieri. l'egocentrismo allargato non va. ognuno fonda un suo piccolo mondo, col suo tempo, il suo spazio e le sue regole. così che nel mondo del signore brutto che ci ha rubato il sellino, come dice viola, commettere gesti simili è la cosa più naturale e autoriferita del mondo. deduco dunque con un po' di sgomento che sarebbe più opportuno tornare all'alltruismo che già abbandonammo un paio di post fa. ma solo se, anche in questo caso, si trattasse di un altruismo largamente condiviso. però, visto che la maggior parte del mondo rema contro, proclamerei ufficialmente lo stato di crisi. siamo in trappola.

89

esistono due libri che, almeno da queste parti, non passano due notti nello stesso posto. (eccoli due o tre sere fa, in un raro momento di riposo.) era ancora gennaio quando una delle persone più intensamente eleganti dei due mondi mi invitava a partecipare a un esperimento letterario che già dalle premesse, e anche solo come lettrice, non poteva che incontrare tutto il mio entusiasmo. un mondo nuovo tra due opere mondo che adoro. un fiume, che dico: un estuario per romanzi fiume!, giusto in mezzo a quei due libri lì.
ho pensato a lungo al racconto da scrivere. poi il tempo e le cattive influenze hanno fatto il resto. così solo oggi posso annunciarvi con orgoglio il mio piccolissimo rivolo a quel bel posto che è diventato, già!, microcenturie.
commentate, stampate, diffondete, partecipate!

io non ridevo

 

io sono quella che raccoglie i volantini sotto le cassette della posta di tutto il condominio ed esce a buttarli. io sono quella che quando cucina qualcosa ne impacchetta accuratamente i resti e poi corre in strada studiando sempre nuovi posti dove abbandonarli.
ieri aiutavo una signora a far salire una sedia a rotelle, per fortuna vuota, su dei gradini. un bambino con una stampella la guardava sotto la pioggia scrosciante e il portone si richiudeva implacabile sulle sue mani. mentre andavo verso di lei per tenerle il portone, il passeggino con viola si è sfrenato ed ha preso a camminare da solo sul marciapiede. così la signora è corsa da viola, lasciando che la sedia a rotelle cadesse rovinosamente sui gradini. il ragazzino, intanto, neanche messo così male, rideva. io no. e neanche la signora, anzi lei stava per piangere dalla stanchezza. e a me la stanchezza mi strazia. io vorrei che tutto il mondo non fosse stanco mai.

cuando el sol cambia su color

nessuno è mai dove l'hai lasciato, mai. tutto si muove, cammina. e niente, niente, è come credi. in un'email bellissima, ieri mattina, ho letto che niente ha senso. e sono rimasta lì: niente ha senso, è un fatto. ma che niente abbia un senso ha senso quasi più di me e quindi non vale. non ho voglia di appiattirmi sul nichilismo, in fondo non ci credo. io voglio credere all'altro, al prossimo mio. non a chi è dentro di me, ovvio. chi è dentro di me è fuori dai giochi. è quello che è la parola amore nella frase io amo l'amore. è il complemento dell'oggetto interno. sono io. no, io voglio credere a l'altro da me. quello vicino a me, l'amico. ama il prossimo tuo come te stesso è un comandamento bellissimo, ma più mi guardo intorno e più deduco che la gente non si ama. ieri sera sono stata dieci minuti affacciata alla finestra, a gelarmi per cercare di fotografare un tramonto bellissimo tra i rami della strada in cui vivo. era rosso ed io ai tramonti ci credo. più o meno come, fino a qualche tempo fa, credevo negli altri. ma poi ho chiuso, prima che anche quel rosso si accorgesse che lo guardavo e diventasse rosa.

alzate l'architrave, carpentieri!

(ed ora va' a letto. in fretta. in fretta e lentamente.)

fatti questo slego

 

è tutto un togliere, continuavamo a ripetere anni fa. fino a quando, la magia: quello che resta non può essere più diminuito. neanche di una parola. pena continuare a toglierla e dopo un po' finire col nuovamente aggiungerla, sempre la stessa. segnale chiaro, mi sembra per carver, che l'opera è giunta a compimento: minimalista e all'osso come piaceva a lui. ma la vita è un'orgia di esperienze senza confine che poco ha a che fare con certe lezioni di stile. e là dove risulta asciutta e perfettamente a fuoco, è solo perché va così, non certo per sembrare più elegante. 

anzi, così

e se nel frattempo vi augurassi un anno così?

nemmeno il tempo di resuscitare

 

le impressioni non smettono di ballare e spesso mi tengono sveglia la notte. così penso e scrivo lettere lunghissime indirizzate a chiunque, e nello sforzo di tenere il filo mi stanco e mi riposo nello stesso tempo. poi durante un giro in bici in mezzo a un freddo che quasi non ci credevo, ho trovato persino il tempo di ammalarmi per un paio di giorni. e poi galleggiare contentissima nella gioia della guarigione.

polski beat

(lo so, la foto fa molto campagna pd, ma non abbiamo resistito.)

sono stata in polonia la settimana scorsa e sono tornata con una valigia piena di impressioni profonde e in continuo movimento. così che, da quando sono tornata, non riesco a sedermi un attimo e scrivere: sono le impressioni profonde che ballano, sul fondo. si stancheranno.

lussi

d dice che vivo in un mondo parallelo. e ride con tenerezza del mio modo di vedere le cose. ma aggiunge che il mondo purtroppo è altrove. ovviamente, con questo, non intende dire che il mondo è cattivo e io sono buona: non si fa. in seconda liceo il mio professore di letteratura mi disse: ardingo, ancora dividiamo il mondo in buoni e cattivi? e me lo disse come sottolineando una verità tanto ovvia da risultare noioso persino ripeterla. io, a quei tempi, ancora dividevo alla luce del sole, ma come se non bastasse risposi: ma no, si figuri, è da un pezzo che non lo faccio più!

tu cosa credi, bello?

 
 

in fila davanti alle casse del supermercato più soffocante del mio quartiere, ecco a voi: l'ansia. anche la domenica mattina. la competizione. la fretta. il fastidio di trovare il tempo, non avendo tempo, di sbirciare nelle vite degli altri. gli avventori guardano come non guardando e la speculazione più approfondita, dopo acute e partecipate osservazioni, consiste nel confrontare l'indice di massa magra, calcolato occhio assonnato e croce devota, con il cibo presente nel carrello. il gioco, immagino, sia tutto qui: dopo un'occhiata schifata o invidiosa, che dipende dal risultato di complicati algoritmi tra picco di autostima e numero di cali glicemici, si passa a nuova vittima.

due cose le ho imparate, anch'io

questa notte guardavo il remake di un vecchio film su rai4. la storia di uno sciupafemmine di nome alfie, jude law, che si redime poco prima di perdere completamente i sensi. durante il suo percorso incontra un uomo che col fare di chi la sa lunga, quindi tipicamente mentre fa la pipì nell'orinatoio di un bagno pubblico, gli passa due dritte per la sopravvivenza.
la prima: è sicuro che le carote non fanno ingrassare. la seconda: appena finisco qua ti insegno come si taglia la cocaina.

non andare in giro a gridare contro gli ego in generale

 

- un secondo, un secondo soltanto. tu non fai altro che parlare di ego. dio mio, ci vorrebbe cristo in persona per stabilire cosa è ego e che cosa non lo è. questo è l'universo di dio, carissima, non il tuo, e tocca a lui l'ultima parola su cos'è ego e cosa non lo è. come la mettiamo allora col tuo amato epitteto? o con la tua amata emily dickinson? vuoi proprio che la tua amata emily, ogni volta che le vien voglia di scrivere una poesia, si metta a sedere e dica una preghiera finché quella sua orribile voglia egoistica non le passa? no, certo che no!

come ti chiami

 

buon autunno e buon anno, sì

ma piove da mesi e il cielo va e viene schiumoso

sott’acqua chiudo le mani per trattenere le gocce

ma la pioggia è più sabbia che altro

e scivola giù in mezzo al fango

 

dopo ogni scroscio mi inginocchio

cerco di separare le gocce dai granelli di sabbia

ma non ne trovo una e il terreno è diventato mobile

tanto che non riesci più a distinguere

dove non è più quello che era

e dove è solo quello che sarà

laudomia bonanni duemilanove

 

come sempre ci sarò anch'io. questa volta con una poesia: s'intitola come ti chiami ed è lunghissima. estenuante, dicono.

prossemica

sono stata all'auditorium in questi giorni. sono arrivata vicino vicino a tutto il cinema che conta, anche quello che non si vede. o forse è il cinema che mi è tornato vicino vicino: anche se non conto, anche se mi vedo appena. la pioggia rendeva quasi sanguinario il famoso tappeto rosso e domenica mattina l'ho percorso tutto: da sola, sotto l'ombrello, senza fretta. sono stata seduta vicino a persone che mai avrei potuto immaginare più lontane da me, tanto erano vicine. e guidando ho attraversato molti incroci, nell'indifferenza dei più, fino a quello con via settembrini: quando una signora si è accorta di me e ha pensato di venirmi vicino. molto vicino, troppo vicino. insieme, chinate sul cofano della mia macchina ammaccata, compilavamo moduli. incrociavamo dati. ci dicevamo mi dispiace. il vento era forte e allora i fogli volavano, le nostre mani si incontravano nell'intento di bloccarli. alcune ciocche di capelli si mischiavano in un biondo un po' strano. gli orli dei nostri impermeabili si sfioravano. poi basta. siamo risalite in macchina, ognuna sulla sua, e le nostre vite sono tornate alla distanza d'ordinanza, forse quella giusta.

(se non ne avete ancora abbastanza riguardate questo video, riascoltate quella canzone facendo attenzione al testo, ripensate a wim wenders e a quei due film là, chiudete gli occhi e tornate a berlino... se pensi a berlino, il cuore ti batte più forte and the night would be enough.)

tutto torna, ancora.

 
tutto torna, lo sappiamo. torna il freddo finalmente. torna il cinema, non solo per qualche giorno e non solo a roma. torna, e resta per un mese, il genio del gennaio scorso: non gino, l'altro. tornano i guanti persi a milano, il professore di geometria più lontano dal sistema di riferimento che abbia conosciuto mai ha scritto a d e, tra le altre cose, ha confessato: ho qui un paio di guanti di tua moglie. torna, ogni giorno, qualcuno che chiede a queste pagine come si taglia la cocaina e se le carote fanno ingrassare. a tal proposito, vorrei chiarire una volta per tutte che io non lo so come si taglia la cocaina. anche se in passato ho scritto questo, io non lo so. sulle carote, invece, sono un po' più preparata e penso di poter dire che: no, mangiate pure tranquilli.

self esteem

 

e comunque se qualcuno mi dicesse sei più bella che intelligente, non mettendo minimamente in discussione la bontà delle mie capacità mentali, penserei: cavoli, devo essere veramente bellissima!

prima o poi si sveglieranno...

pura meraviglia, via wittgenstein.

e quando ne hai trenta, trentuno, trentadue, trentatre, trentaquattro?

 

quando hai vent'anni, ventuno, ventidue, ventitre, ventiquattro, quello che vuoi dalla gente è che ti parli di te. quando hai vent'anni, ventuno, ventidue, ventitre, guardi il mondo per vedere come ti guarda. la gente ride quando fai una battuta, ti bacia quando ti avvicini durante una festa? sì? ah, ecco allora chi sei. ma quelle stesse persone, quelle che ridono o non ridono, baciano o non baciano, sono a loro volta giovani, e allora cominci a pensare, se hai venti o ventun anni, se sei giovane, che di loro non ci si può fidare, dei tuoi coetanei, di quegli schizzati dei tuoi amici e delle tue fidanzate: che non sei tu il motivo per cui ti hanno baciato, ma sono loro, è qualcosa dentro di loro, narcisisti che non sono altro, mentre tu gli stavi chiedendo di te, volevi sapere cosa pensavano di te.

[da tutti gli intellettuali giovani e tristi di keith gessen]

scegliere con cura come uscirne

i pensieri che mi attraversano sono pieni di nodi e di pettini spesso pronti a districare e rimettere in riga. ma sono pettini miei, quindi affetti dalla stessa simpatica malattia dei miei capelli, della mia pelle, delle mie idee, di me: mentre pettinano, i pettini che porto in mezzo ai pensieri, si distraggono, dimenticano dove e chi sono e si mettono a fare altro. così mi ritrovo capelli lunghi ma corti. troppo lunghi, diceva mamma solo ieri. troppo corti per me e gli estremi cui mi sacrifico da trent'anni.

controvènto

mi sento come una bottiglia piena all'orlo e a testa in giù. ma mentre lo scrivo già non calza più. allora non lo so come mi sento. io non lo so più. mi sento senza nome, quindi quasi salva. come una cosa, che cosa?, che ha passato il punto di accumulazione del trabocco e che, per qualche strana magia della fisica, pur essendo a testa in giù non lascia uscire niente. c'è qualcosa là in fondo, sulla punta delle mie dita, che fa da tappo invisibile, da insospettabile membrana impermeabile. le mie parole, mentre assicurano di non voler altro che sgocciolarsi in giro, premono contro le pareti della bottiglia e così, per non fidarsi troppo neanche di quel qualcosa, riescono a tenersi su. ma non può durare a lungo, si sa: il giorno che cederanno ci riconosceremo dai vestiti bagnati.

(superfluo aggiungere il nome di chi ha scritto le parole che mi inseguono da giorni, basta ascoltare come sgocciolano bene...)

avanguardie

negli ultimi anni del milleottocento nacque l'io. col tempo, ma più o meno negli anni settanta, si passò al chi. dal chi al cosa fu un lampo targato anni ottanta. poi i novanta con le prime correnti new age e, per i più avanti, il tragitto da preferire in ogni caso alla meta. poi un ritornello che fino a qualche anno fa cantava: non è cosa ma è come. e poi domenica, intorno a un tavolo all'alba dei dieci, si diceva che, più di tutto, non è importante il come ma il perché. da allora viola, forse per spirito di contraddizione o solo perché terribilmente giovane, ha abbandonato la fase del perché ed è passata a quella del dove.

quando basta

 

i cieli non sono umani, e io ne ho abbastanza.

[una solitudine troppo rumorosa, bohumil hrabal]