sette anni fa ero a cambridge, c'era il sole, era una splendida domenica delle palme. dalla hall dell'albergo dove dormivamo chiacchieravo con mia madre a l''aquila che preparava il pranzo, qualcuno suonava un piano poco più in là. mia madre mi diceva: c'è un sole bellissimo, oggi viene nonna.
viola corrreva su e giù intorno ai divanetti e ogni tanto veniva a sorridermi. io ero felice. uno di quei giorni in cui i vestiti cadono particolarmente bene e i capelli sono davvero contenti di essere i tuoi capelli e gli sguardi dei passanti a te, al tuo mondo, sembrano tutti di approvata ammirazione.
venivamo da una settimana a bristol. con viola avevo fatto lunghissime passeggiate sulle colline, intorno ai college storici, fino al porto. e ora, a cambridge, tutto sembrava così cosmopolita e familiare al tempo stesso. gli autobus a due piani passavano sotto la nostra finestra e viola urlava divertita. guardavamo le canoe sul canale. i portoni delle università erano aperti sul futuro e camminando cercavo di spiegare a viola la forza di gravità, le mele che cadono, newton. molte persone che conoscevamo percorrevano quelle stesse vie in quei giorni ed era tutto un riconoscersi e salutarsi. erano persone che stimiamo molto ma che vediamo poco, venute da tutto il mondo per lo stesso motivo di d.
è un po' brutto quello che sto scrivendo perché chi mi vuole bene e legge sa già come andò a finire. è un po' come quando vai al cinema per vedere un thriller e ti sembra un inutile preambolo la lunga premessa quieta in cui i ragazzi giocano in giardino, l'uomo in giacca e cravatta torna a casa e sul vialetto bacia la moglie biondissima e l'arrosto cuoce in forno entusiasta del proprio destino.
ma la vita è proprio così e l'arte, non so ancora se rammaricarmene, purtroppo inventa poco.
sette anni fa con prati, fiori e poesia nelle vene rientrammo a cambridge. poco dopo saremmo andati a cena in un ristorante messicano bellissimo, io indossavo un vestito blu con fiocco che amo molto e un sorriso negli occhi che, ancora, mi faceva sentire al mio posto, a casa, giusta. e questa, tra tutte, è la sensazione che cerco sempre di riprodurre, ovunque. mi piace perdermi tra la gente del posto, confondermi mimeticamente e sfruttare (soprattutto evitando di parlare) l'indubbio vantaggio di non sembrare italiana. fare la spesa nei negozi a fine giornata come tutti, provare a cucinare quello che cucinano loro, immaginare scuole per i miei figli, indovinare potenziali amicizie tra i sorrisi indigeni, sognare. far finta di essere a casa.
e poi, sette anni fa, venne la sera, una serata meravigliosa. una lunga lunghissima tavolata con persone da tutto il mondo, piene di talenti e voglia di scambiarsi qualcosa. parlavamo un misto di lingue e tutto era perfetto, si incastrava precisamente. il meno dotato del tavolo (esclusa me, ovviamente) era un genio in almeno un paio di discipline scientifiche, parlava sette lingue e si apprestava a scrivere un libro per la springer. viola era fantastica, assaggiava quel cibo così speziato, rideva, stava ai giochi di persone che, nei pochissimi mesi della sua vita, aveva già visto diverse volte. felice e saltellante, una volta a casa, dormì benissimo e senza storie. quei letti erano comodissimi e quando la sveglia suonò mi sembrò che fosse stata una delle volte in cui avevo dormito meglio in vita mia.
la luce di un sei aprile ancora timido filtrava dalle tende e andai in bagno a lavarmi i denti. avevo lasciato il mio telefono sulla mensola sotto lo specchio a caricare. e, mentre facevo la pipì, lo accesi. appena collegato cominciarono ad arrivare decine di suoni di messaggi, chiamate perse, email. ma piena di tutta l'armonia accumulata nei giorni scorsi e della bellezza tipica di chi ancora non sa cosa può succedere al mondo sorridevo pensando a qualche amico, a voi, a una sorpresa.
leggevo e tutti mi chiedevano: come stai? e i tuoi? mi dispiace! scrivi presto! dove sei? non capivo e in qualche modo urlai. d corse subito da me e accendendo il suo telefono trovò più o meno la stessa cosa. poi un messaggio: fortissimo terremoto a l'aquila, dimmi che non eri lì. e lì, sette anni fa, ho perso tutto il mio colore. ho preso il telefono e, non so perché, sono corsa fuori con una maglietta scalza a telefonare a casa: un numero fisso con tanto di prefisso internazionale più 0862. l'ingenuità di questo gesto, col senno di poi, mi commuove ancora oggi. ero sicura che casa mia fosse a posto che i miei avessero sentito la scossa ma che tutto fosse già passato.
ma il telefono squillava e nessuno rispondeva. nessun cellulare prendeva. il panico si impossessava di me mentre rientravo in camera. il telefono di d squillò lessi mamma e subito lo presi, a quel tempo li avevamo uguali, piena di una felicità impossibile e irrazionale. quando risposi sentii che ovviamente non era la mia mamma ma la mamma di d e sprofondai in uno sconforto difficile da dimenticare.
corsi di nuovo fuori, viola dormiva, d cominciava a recuperare le cose per partire subito per tornare a bristol. io non ragionavo più. ero disperata senza ancora rendermi conto di quanto avrei dovuto essere disperata. il resto lo sapete.
una colazione terribile per viola in uno starbucks troppo pulito, un affanno che mi faceva respirare male, qualcosa di atroce che non riuscivo a inghiottire, quella radio schifosa che trasmetteva i beatles e quei tavolini così lucidi, così brillanti, così bianchi. rimasi in piedi vicino alla vetrina dei panini terrea e con un senso di nausea tale che non riuscivo neanche a camminare. in macchina messaggi, email, persone che volevano sapere. mentre a l'aquila l'enorme nuvola di polvere causata dalle macerie ancora offuscava il nostro bel cielo e nessuno sapeva. sette anni fa nessuno poteva sapere. sull'autostrada che ci riportava a bristol mi sembrava di vedere tutto dall'alto, nuvola e me che corro verso quella polvere. un motivetto beffardo come di fine, qualcosa tipo that's all folks!, mi girava per la testa da ore e non riuscivo a sconfiggerlo.
sette anni fa oggi io ero piccola. non sapevo ancora di vivere in un paese in cui un capoluogo di provincia può sparire così da un giorno all'altro. non pensavo che opere d'arte come le nostre potessero giacere per anni sotto pioggia e neve prima che, non dico il rispetto, ma almeno la pietà verso i vinti sembrasse una cosa opportuna. ancora non sapevo cosa può fare un terremoto, ancora non conoscevo il male.
a bristol l'homepage di repubblica ci aggiornava sul numero delle vittime. ricordo di essere entrata di corsa in casa e che d chiuse all'improvviso il computer e mi venne incontro vicino al divano con un modo di fare strano. in seguito mi confidò che non voleva che vedessi: i morti erano già trecento e le liste di nomi portavano con sé l'ansia impotente di veder spuntare nomi di amici, conoscenti, compagni di scuola, parenti.
sette anni fa l'aquila era distrutta e io ancora non sapevo che sette anni dopo lo sarebbe stata ancora. e peggio. umiliata dalle innumerevoli campagne elettorali costruite sulle nostre vite. sconvolta dalle parole di politici dell'ultima spiaggia che non hanno nessuna vergogna.
lasciammo bristol rapidamente e fu un ritorno a casa pieno di dolore. prima di andare via passammo a salutare le persone che conoscevamo in un locale. tutti avevano saputo quello che ci era successo. se ne stavano in un tavolo in fondo, pieni di fogli e di teoremi e di barbe bianche. a studiare e a bere tè. io entrai per prima, non so perché. e il più anziano, uno dei più grandi matematici americani del novecento, un gigante in ogni senso, si alzò e enorme venne verso di me senza dire niente.
ricordo che mi abbracciò strettissima al centro della stanza e fu come sparire tra le braccia di un gigantesco orso bianco o un leone o qualcosa di sovrumano e terreno. tutti ci guardavano e lui non mi lasciava. nella mia vita ho avuto la grande fortuna di passare con lui molti momenti memorabili ma gli sarò sempre grata per quell'abbraccio silenzioso e strettissimo di sette anni fa, non lo dimenticherò mai.
e poi l'arrivo a roma. le chiacchiere inutili della gente che non fa un passo indietro mai. in certe occasioni è d'obbligo restare in silenzio, le parole non servono e quell'abbraccio me lo aveva insegnato una volta per tutte. persone che ti raccontavano che anche a roma si è sentito fortissimo e poi ti spiegavano tutte le loro sensazioni a riguardo e ti ripetevano con una consapevolezza tanto più crudele quanto più impossibile sette anni fa: eh, ma l'aquila non c'è più, l'aquila non c'è più. non capendo minimamente di accoltellarmi sempre più in profondità ad ogni ripetizione. e io che stavo zitta e pensavo: non dimenticherò. e tutti: peccato, era una così bella città, è crollato tut... e non hai pietà tu di me. non hai pietà, non hai pietà.
da quel giorno la distruzione è entrata potente dentro di me e nessuno potrà farla mai uscire. silvia una delle mie migliori amiche, morta per tutt'altro motivo poco tempo dopo ma che iniziò a morire proprio quel giorno, mi scrisse: piango la nostra città ferita. ed è tutto. tutto quello che è giusto dire, tutto quello che posso aggiungere.
e sette anni dopo eccoci ancora qui, ai posti: stessi pianti, stesse ferite, blandi rimedi, parole inutili. siccome immobile.
stefano, kovalski, grazie!
cate, la rabbia è il sentimento giusto. la voglia e lo slancio di pensare che tutto sarebbe potuto andare diversamente. la figura di tuo padre è legata a l'aquila com'era e come non tornerà. sarà un'altra cosa, mi dico. forse anche più bella, ma diversa. qualcosa che ha calpestato troppo per interessi che non avrebbero dovuto interessarci. la gente del friuli è stata magica, gli aquilani sono stati messi nella condizione di non poter far nulla se non aspettare con pazienza fuori dalla zona rossa.
tutto doveva passare da mani istituzionali, le mani non arrivavano, gli inverni rovinavano quel poco che era rimasto in piedi, le coscienze si addormentavano. ed eccoci qua.
anch'io ne parlo con grande tristezza e non sono così sicura di sapere (o sentire) più di te. grazie per queste tue parole, abbiamo fatto a metà di un po' dei dolori che abbiamo dentro, come sempre.
ti abbraccio tanto.
Scritto da: manu | lunedì, 30 maggio 2016 a 11:41
ciao manu, oggi sono tornata qui e sono veramente felice di ritrovarti.
io non riesco a parlare dell'aquila perché mi ricordo di papà in ospedale, quando avvenne.
e non posso sapere come stava lui, o come stavi tu; quindi non dico niente su questo o dico a bocca stretta qua e poi basta.
per me l'aquila è un pomeriggio dorato con delle fontane e io che correvo bambina.
mi manca, come mi manca mio padre.
le cose per me sono tristemente sovrapposte, tristemente ma rabbiosamente, perché l'aquila non è morta, non è sepolta, potrebbe vivere di nuovo, e questa cosa mi amareggia moltissimo, nel mio piccolo.
una cosa però te la voglio dire. quando avvenne il vajont in friuli qualcuno ebbe la splendida idea di creare una new town, come la chiamano ora, nominarla proprio "vajont" (quando le città colpite si chiamavano Erto, Casso e Longarone) e farci andare a vivere, sfollati, i superstiti della tragedia. È stato il primo lavoro di mia madre in friuli: guardia medica a Vajont. Non ne parla volentieri, perché c'era un tasso di suicidi altissimo e lei poteva solo constatare questi decessi dovuti alla doppia tragedia: perdere la propria casa due volte.
poco più di dieci anni dopo il vajont è arrivato l'orcolat, il terremoto. (orcolat in friulano vuol dire grande orco). ci hanno riprovato, a fare le new town, e i friulani si sono ribellati, e hanno ricostruito le case dov'erano.
io con questo voglio dire: perché calpestare di nuovo le persone?
perché sradicarle di nuovo, dopo quello che hanno passato?
non li abbiamo già visti, i terremoti? perché quello che è successo in friuli non si può rifare?
sono passati solo sette anni. non è un terremoto antico. e io non mi posso arrendere a come è stato gestito, questa è la cosa che più mi brucia. se penso alla palazzina che avevano i familiari di mio padre, all'officina andata distrutta, al prefabbricato dove sono stati sfollati, mi chiedo solo perché fare anche questo a chi ha già subìto troppo.
però non voglio parlarne più perché tu sai e senti meglio di me.
ti abbraccio,
cat
Scritto da: cate | giovedì, 26 maggio 2016 a 09:09
<3 ..................... <3
Scritto da: Stefano | giovedì, 28 aprile 2016 a 09:54
< 3
Scritto da: kovalski | giovedì, 14 aprile 2016 a 16:01
felix! salutalo tanto da parte mia... le nostre parole sono rimaste un'oasi felice, in mezzo ai ricordi di quei giorni. :-*
Scritto da: manu | lunedì, 11 aprile 2016 a 14:27
Memorabile quella serata, con te e l'amico di Trento, Felix Lalù si chiama. Grazie a te ...
Scritto da: L' Alligatore | venerdì, 08 aprile 2016 a 19:31
kovalski, ( )
xxx, sai che forse non importa? chi è il leone, intendo. conta la vicinanza e, come scrivi tu, non mentirsi mai. a questo proposito: non sarà il caso, dopo dieci anni, di dirmi come ti chiami? :)
l'alligatore, ti ho pensato molto scrivendo questo post. speravo tu leggessi, perché tu c'eri, ricordi? la sera prima di andare a cambridge ci scrivevamo da bristol... c'era anche un tuo amico molto simpatico di trento, come si chiamava? ti abbraccio tanto!
sara, dici? allora inizierò anch'io! :-*
Scritto da: manu | giovedì, 07 aprile 2016 a 12:54
Dicono che i grandi cambiamenti avvengono ogni sette anni. voglio (provare) iniziare a credere ai proverbi.
Ogni sett'anni a fortuna gira, ogni vintiquattr'uri è jurnu novu.
Scritto da: sara | mercoledì, 06 aprile 2016 a 10:04
Sembra uno scritto meditato e cullato nella mente sette fottutissimi anni.
Scritto da: L' Alligatore | martedì, 05 aprile 2016 a 23:24
TU mi lasci senza fiato, vorrei essere stato io l'uomo dell'abbraccio. Ma non so mentirmi mai e ti dico che in quell'abbraccio il leone saresti stata TU... piccolo gigante che non tramonta!
Scritto da: xxx | martedì, 05 aprile 2016 a 15:21
( )
Scritto da: kovalski | martedì, 05 aprile 2016 a 15:12